La storia del condominio dalle origini ai giorni nostri

di Luigi Grillo · 31 maggio 2023

Tag: Diritto condominiale

LE ORIGINI

Pensate che il condominio sia un’invenzione recente? Pensate che questo modo di costruire, sfruttando al massimo l’altezza soprattutto in città sia prerogativa del ventesimo secolo? Ritenete che soltanto in epoca contemporanea siano state sviluppate le competenze tecniche per edificare stabili estesi in verticale? Ebbene, nulla è più falso. Già gli antichi romani edificavano fabbricati di svariati piani, fino a costringere l’imperatore Augusto a proibire di costruire palazzi più alti di 70 piedi (circa 21 metri), abbassati  da Traiano a 60 piedi (circa 18 metri),  in cui erano presenti innumerevoli abitazioni, poiché spesso molto piccole e formate da poche stanze, come dimostrano le testimonianze scritte e i reperti archeologici, soprattutto quelli rinvenuti ad Ostia, tuttora visitabili.

Molti autori citano infatti episodi che indirettamente ci descrivono i condomini romani. Cicerone per esempio descrive la sua città come sospesa nel cielo, Giovenale stigmatizza le costruzioni in altezza non supportate da adeguate fondamenta, Tertulliano invece, parlando dell’insula Felicles, un palazzo celeberrimo per la sua altezza, irride i romani per la loro volontà di arrivare al cielo con le loro costruzioni..

Il motivo per cui gli antichi romani hanno sentito il bisogno di sviluppare edifici in altezza è che Roma, delimitata da una parte dal mare e dall’altra dagli Appennini, era circoscritta sui sette colli e quindi aveva poca estensione territoriale. Il bisogno di abitazioni fece inoltre aumentare la richiesta di appartamenti in città da parte della moltitudine di persone trasferitesi nell’Urbe, per la maggior parte in cerca di fortuna. Moltissimi erano schiavi, ma molti erano anche esponenti di ceti nobili delle province, che si spostavano a Roma per essere vicino al centro del potere, per stringere alleanze, o semplicemente per poter usufruire di precettori preparati.

Lo stesso Vitruvio ci racconta che l’Urbe difficilmente avrebbe potuto contenere tutti coloro che dalle province remote dell’Impero si riversavano in città, se le domus fossero state costruite secondo lo stile tradizionale. Questo fece sì che gli architetti aguzzassero l’ingegno in merito al miglior modo di costruire in altezza.

Si stima che la Roma imperiale giunse ad avere 1.200.000 residenti, praticamente una vera e propria metropoli, se si pensa che Milano ad oggi ne ha 1.300.000, Dublino arriva ad appena 530.000 abitanti, Amsterdam ne ha 826.000.

La varietà di estrazione sociale di coloro che giungevano nella caput mundi fece sì che si sviluppassero nello stesso palazzo tipologie di appartamenti molto dissimili tra loro, un po’ come ai giorni nostri. In genere al primo piano o al pianterreno, se questo non era destinato a taverne o negozi, vivevano le famiglie agiate. L’affitto di locali così ampi era infatti appannaggio dei ceti medio-alti, poiché solo loro avevano a disposizione fondi sufficienti per poter pagare i costosissimi affitti.

Salendo su per il palazzo troviamo sempre più gente umile. Il minor costo dell’affitto ai piani superiori, oltre all’evidente scomodità delle scale, era dovuto all’impossibilità di ripararsi adeguatamente dalla pioggia e dal freddo, visto che i materiali edili usati erano sempre più leggeri man mano che si saliva. Inoltre in caso di crolli o incendi era assai più difficile scampare alla morte. La frana o la propagazione di fiamme libere erano infatti tutt’altro che rare, poiché le strutture erano costruite con materiale a basso costo, come legno e mattoni, e il bisogno primario di scaldarsi, sovente con focolari di fortuna, rendeva più che probabile i roghi.

Ricordate la leggenda che narra di un Nerone piromane, che appicca fuoco all’intera Roma per poter avere a disposizione lo spazio sufficiente per costruire la propria superba dimora? Naturalmente la storia non è così, poiché gli incendi nella Roma imperiale erano frequenti e frutto di incidenti, tanto che fu necessario creare il corpo dei pompieri, istituzionalizzati dall’imperatore Ottaviano Augusto. Come sappiamo, ogni leggenda nasconde un fondo di verità e, nello specifico,  l’incendio di Roma da parte di Nerone dimostra come fosse usuale il divampare delle fiamme nell’Urbe.

IL CONDOMINIO DI ROMA ANTICA: L’INSULA

Il condominio romano, nel periodo del regno ed in seguito della repubblica, era chiamato insula perché in origine gli edifici erano staccati gli uni dagli altri e si ergevano all’orizzonte come vere e proprie isole, circondate dalla fiumana delle strade romane, sempre piene di persone. Con la crescita dell’Impero e l’aumento consequenziale di persone che volevano trasferirsi nella caput mundi, venne meno la caratteristica di costruire edifici circondati ai quattro lati da strade ma, anzi, si iniziarono a costruire palazzi sempre più interconnessi. Tanto che per arginare il fenomeno dei crolli degli stabili, proprio Nerone dovette approvare una legge con la quale si stabiliva che ogni condominio dovesse avere propri muri perimetrali e non potesse condividere la stessa struttura con altri edifici.

La poca stabilità dei condomini nell’antica Roma è facilmente imputabile ai palazzinari dell’epoca, che votati al maggior guadagno possibile, costruivano edifici a basso costo per aumentare il loro profitto. Si narra che proprio Crasso, uno degli esponenti del primo triunvirato, insieme a Cesare e Pompeo, avesse fatto fortuna comprando, subito dopo il crollo, intere aree dove fino a poco tempo prima sorgevano alti condomini, offrendo pochi sesterzi agli sfortunati proprietari.

Sembra proprio che dalla Roma antica poco sia cambiato. Le esigenze abitative  ed i comportamenti umani paiono simili, oggi come allora.

Le insulae (da dove viene il termine italiano “isolato”) rappresentavano l’abitazione tipica del popolo di Roma a partire dal IV sec. a.C., a fianco delle domus (l’abitazione del ceto più abbiente).

Si potrebbero paragonare, come già detto, ai nostri condomìni, in quanto più famiglie vi risiedevano e poiché erano sviluppate in altezza, fino a sei piani. I differenti piani denotavano la divisione sociale: la famiglia più benestante occupava il piano più basso e, man mano che si saliva in altezza, si apparteneva ad una classe meno agiata. Questo per più motivi: essendo costruite con materiali spesso scadenti, i crolli erano all’ordine del giorno, e ai piani più alti non arrivavano né la fognatura né l’acqua.

Naturalmente gli imprenditori edili cercavano di elevare in altezza questi stabili, per poter vendere di più e trarre un profitto maggiore. Augusto, come già detto, fu quindi costretto a porre il limite in altezza a 60 piedi, ovvero 20 metri. Limite non sempre rispettato: nel II sec. d.C. famosa è l’insula Felicles (citata anche dall’apologeta Tertulliano), di cui abbiamo già parlato, che era un vero e proprio grattacielo, che attirava l’attenzione di tutti, per la sua maestosità, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia.

Spesso sovraffollate, in quanto il proprietario di un appartamento subaffittava singole stanze a più famiglie, un’insula poteva arrivare ad ospitare anche 200 persone!

Tutti i rifiuti venivano gettati di notte dalle finestre oppure messi in apposite cisterne, svuotate periodicamente dagli scoparii, gli spazzini di allora.

Si conta che a Roma, nel II sec. d.C., ci fossero circa 46.000 insulae contro 1.800 domus.

Insulae ravvicinate e fatiscenti, affollamento, sporcizia, crolli, rumori, malattie, risse, incendi: tanti erano i problemi in un’insula.

Di seguito, due testi, uno di Giovenale e uno di Marziale, possono chiarire bene le condizioni di vita in un’insula.

“Nos urbem colimus tenui tibicine fultam

magna parte sui; nam sic labentibus obstat

vilicus et, veteris rimae cum texit hiatum,

securos pendente iubet dormire ruina.

[…] tabulata tibi iam tertia fumant:

tu nescis; nam si gradibus trepidatur ab imis,

ultimus ardebit quem tegula sola tuetur

a pluvia, molles ubi reddunt ova columbae.”

“Ma noi viviamo a Roma, una città che in gran parte si regge su puntelli fatiscenti; così infatti l’amministratore rimedia ai guasti e, tappata la fenditura di una vecchia crepa, invita tutti a dormire tranquilli sotto la minaccia di un crollo.

[…] Sotto di te il terzo piano è in fiamme e tu l’ignori; se giù in basso il terrore dilaga, chi non ha che le tegole per ripararsi dalla pioggia, lassù dove le languide colombe depongono le uova, brucerà se pure per ultimo”.

(GIOVENALE, III, 190 sgg.)

 “Vicinus meus est manuque tangi

De nostris Novius potest fenestris.

Quis non invideat mihi putetque

Horis omnibus esse me beatum,

Iuncto cui liceat frui sodale?”

“Novio è il mio vicino e dalle mie finestre, con la mano si può toccare. Chi non mi invidia e non ritiene ch’io sia beato ad ogni istante, potendo godere d’un tanto intimo compagno?”

(MARZIALE, I, 86)

 Nelle immagini ricostruzioni grafiche dell’insula.

Ma veniamo, a questo punto, ad occuparci della storia giuridica.

Il diritto romano conosceva una proprietà privata ereditata dal genitore e rimasta indivisa tra i fratelli (consortium). In età classica, invece, si svilupparono i concetti di proprietà comune e di divisione pro quota con ripartizione proporzionale dei diritti e degli obblighi con forme di tutela analoghe al diritto moderno (rei vindicatio partiaria).

Nel diritto romano, come detto, il consortium è stato  il primo tipo di comproprietà che si costituiva automaticamente alla morte del pater familias tra i più heredes sui, per il fatto stesso che il patrimonio ereditario restasse in comune tra di essi (consortium ercto non cito). Ogni consorte poteva infatti da solo non soltanto compiere atti di godimento e di gestione di cose comuni ma poteva anche disporne per l’intero. Ovviamente a ciascuno era fatta la possibilità di interporre veto. A porre fine a questo stato di indivisione interveniva l’actio familiae erciscundae.

«Libertas omnibus rebus favorabilior est» «La libertà è fra tutte le cose la più degna di favore»
(Gaio, 120-180 d.C)

Antichissimo istituto del diritto quiritario, di cui conosciamo le caratteristiche grazie al giurista Gaio (120-180 d.C circa), il consortium rappresentava la più antica forma di contitolarità di situazioni giuridiche soggettive.

L’espressione indicava, infatti, come detto, la situazione di comproprietà in cui venivano a trovarsi più fratelli alla morte del comune pater familias]; il patrimonio familiare ereditato non veniva diviso, ma gestito in comune da filii, “attuando una sorta di società universale” (consortium fràtrum suòrum). In tal caso il diritto di ciascuno dei consòrtes non si considerava come rispondente ad una frazione ideale dei beni paterni, bensì come una contitolarità solidale sul patrimonio; tutti erano proprietari del tutto. Il consortium, attraverso una speciale legis actio, poteva essere anche posto in essere convenzionalmente tra coloro che avessero voluto porre in comune un complesso patrimoniale: in tal caso si parlava di consortium ad exemplum fratrum suorum.

Decaduto in età repubblicana, il consortium fu sostituito da un nuovo istituto, detto comunione o condominio
In età successiva, precisamente in età classica, pertanto, si parlò di communio che poteva essere volontaria (in vista ad esempio di un contratto consensuale di società che tra più persone si costituiva, esse compravano in comune certi beni oppure ne mettevano in comune altri già in proprietà esclusiva dell’uno o dell’altro dei soci). Più spesso poteva essere incidentale, determinandosi essa indipendentemente dalla volontà dei contitolari: nei casi di legato per vindicationem in favore di più legatari.

In questa communio, sorta, come detto, in età classica, ciascuno non era più titolare dell’intero, ma soltanto di una quota ideale che poteva alienare, sulla quale poteva costituire usufrutto e pegno, partecipare alle spese nella misura corrispondente alla propria quota e nella stessa misura faceva suoi i frutti. Pro quota rispondeva dei danni che la cosa comune avesse recato a terzi. Se si volevano apportare modifiche spettava a ciascuno dei contitolari lo ius prohibendi. Se un socius abbandonava la sua quota questa veniva acquistata da altri, da ciascuno in proporzione della quota spettantegli. La manomissione dello schiavo in comproprietà comportava che il servo avrebbe conseguito la libertà solamente quando ognuno avesse compiuto l’atto di affrancazione. Il comproprietario esercitava pro parte la rei vindicatio.

Allo scioglimento della comunione di proprietà era possibile giungere tramite l’actio communi dividundo, nella quale i ruoli delle parti non erano differenziati. Con una formula con adiudicatio, il giudice aggiudicava costituitivamente a talune parti o a tutte quante la proprietà esclusiva di cose comuni o di proporzioni di determinate cose comuni. Quando le cose erano indivisibili (nel caso di servitù, ad esempio) era necessario stabilire conguagli in denaro.

Communio, pertanto, era un termine indicante, in età classica, la contitolarità di diritti reali di godimento.
Tale istituto, che, come detto, affondava le sue origini nell’antico consòrtium èrcto non cìto, se ne differenziava per la rilevanza del concetto di quota, elaborato dai giuristi dell’età repubblicana: essa era intesa come frazione ideale del tutto, su cui gravava, nella proporzione fissata, il diritto di ciascuno dei condomini. Tale concetto di quota rilevava, oltre che in sede di divisione, anche per la distribuzione dei frutti, per il riparto delle spese e per il pagamento degli eventuali danni, nonché per gli atti di disposizione: ciascuno dei condomini poteva trasmettere la propria quota di proprietà. Il singolo condomino poteva agire in giudizio per difendere la sua quota dagli attacchi dei terzi, con una rei vindicatio partiaria che aveva ad oggetto unicamente la quota del tutto appartenente al condomino che agiva. Viceversa, per agli atti di disposizione della cosa nella sua totalità occorreva la volontà di tutti i condomini. Ciascun condomino poteva apportare le innovazioni sulla cosa comune, salva l’opposizione degli altri, attraverso l’esercizio dello ius prohibendi. Con lo ius prohibendi questi ponevano il veto all’innovazione, per ottenere o l’interruzione dell’opera o la distruzione di quanto già fatto. Solo in diritto giustinianeo si affermò esplicitamente la regola del consenso preventivo, con la conseguente scomparsa dello ius prohibendi.
Residuo dell’antico consortium ercto non cito fu l’istituto dello ius adcrescendi in base al quale in caso di rinuncia o di derelictio  di uno dei condomini, la sua quota non diveniva res nullius ma accresceva di diritto le quote degli altri comunisti.

Quanto ai rapporti interni tra i condomini, il diritto classico accordava le seguenti azioni al consorte che avesse avuto pretese nei confronti degli altri:

—l’actio pro socio;

—l’actio negotiorum gestorum;

—l’actio communi dividundo.

Ciascuno dei condomini poteva chiedere in qualsiasi momento la divisione della cosa comune; questa poteva aver luogo o d’accordo tra le parti (c.d. divisione volontaria) oppure giudizialmente, con la suddetta actio communi dividundo.

In diritto giustinianeo, la disciplina delineatasi in età classica subì alcune modifiche:
— il principio di prevalenza della maggioranza sulla minoranza, in origine ignorato, fu affermato da alcune costituzioni imperiali in relazione ad ipotesi di grave conflitto tra i condomini;
— in attuazione del principio del favor libertatis, si stabilì che la manomissione operata da un solo condomino fosse valida, salvo l’obbligo di risarcire gli altri condomini per il danno derivante dalla perdita del loro diritto sullo schiavo.

 LA COMUNIONE ED IL CONDOMINIO NEL MEDIOEVO E NELL’ERA MODERNA

Ancor di più nel medioevo e, soprattutto, nell’era moderna, ad opera di illustri giuristi, gli istituti giuridici della comunione e del condominio ebbero un enorme sviluppo, anche in virtù dell’aumento della popolazione e, quindi, del crescente fenomeno dell’urbanizzazione e dell’aumento di fabbricati che rendevano necessaria, pertanto, una più approfondita delineazione, perché le città iniziavano ad avere un aspetto sempre più simile a quello delle città di oggi e, di conseguenza, la esigenza di una più approfondita disciplina normativa diveniva sempre più evidente.

Ma, tralasciamo questo periodo, per giungere all’era recente.

LO SVILUPPO DEL CONDOMINIO IN ITALIA E IN EUROPA NELL’ERA RECENTE

In epoca più recente (1800-1900), mentre in alcuni paesi era quasi sconosciuto e finanche espressamente vietato dalla legge, in altri, come per esempio in Francia, rimaneva limitato a poche città di provincia.

In Italia, il condominio appariva in alcuni grandi realtà urbane (ad esempio, Napoli), agevolato soprattutto dalla esigua disponibilità delle aree edificatorie e dal loro elevato costo; tutto ciò, determinava la pratica delle costruzioni intensive e frazionabili tra diversi acquirenti.
Con l’incremento urbanistico del 1800, a seguito della rivoluzione industriale e del declino dell’economia agraria, abbiamo assistito alla costruzione di grandi edifici, suddivisi in appartamenti.
Con il passare del tempo, lo sviluppo del condominio andò affermandosi in quasi tutti i centri urbani, come conseguenza delle mutate condizioni del mercato edilizio; anche il legislatore cominciò, con una serie di leggi sulle case popolari, a incentivare, tra le classi meno abbienti, la costituzione di questa forma particolare di proprietà.

L’incremento più possente, al condominio, fu dato infine dalla crisi economica ed edilizia verificatasi durante la guerra e nel dopoguerra.

IL CONDOMINIO NEL CODICE CIVILE DEL 1865

Per ciò che concerne, invece, la normativa, il codice civile del 1865, primo codice civile del regno d’Italia, conteneva una disciplina parziale del condominio, e contemplava alcuni articoli (nello specifico, soltanto due) che regolamentavano i diritti sulle parti strutturali di un caseggiato.
In questo primo codice civile dell’Italia unificata, mancavano, del tutto, articoli inerenti l’amministrazione, e soprattutto mancava qualsivoglia riferimento agli organi deliberanti, cioè l’assemblea condominiale. La prima normativa effettiva sul condominio, risale al 1934 dove la parte riguardante i diritti dei singoli è particolarmente curata.

IL CONDOMINIO NEL CODICE CIVILE ATTUALE

Il codice civile in uso, approvato nel 1942, non definisce il condominio, ma ne parla come un insieme di «beni, opere, installazioni, manufatti di qualunque genere che sono oggetto di proprietà comune≫ con la precisazione ≪se il contrario non risulta dal titolo».
Con il codice civile vigente, vengono, dunque, nitidamente distinti, sia concettualmente che giuridicamente, i beni comuni dai beni appartenenti esclusivamente ai singoli proprietari.

Esso, sappiamo, non è altro che una disciplina di applicazione delle norme della comunione (artt.1100-1116 c.c.) ai fabbricati contenuta nei successivi artt.1117-1139 c.c.

Tale disciplina normativa, oggi come oggi, risulta indubbiamente scarna, incompleta, anche e soprattutto se si pensa, in oramai ottant’anni, che sviluppo hanno avuto i fabbricati condominiali nella realtà dell’Italia.

Che cosa ci si auspica, quindi? Se non proprio una codificazione, quanto meno una redazione di un testo unico di un diritto che, per la sua enorme complessità e vastità (abbraccia il diritto civile, penale ed amministrativo, oltre ad essere interessato da un’abbondantissima produzione giurisprudenziale), possa così, finalmente, conquistare una sua dignità, considerato che oggi, forse, esso è ancora considerato un diritto “bagattellare”, il che è, indubbiamente, una sua concezione errata, falsa e fuorviante.

Ma, volendo concludere, con palmare evidenza, ciò che ci si auspica ancor maggiormente è una definitiva armonizzazione della disciplina normativa dell’esercizio dell’attività dell’amministratore condominiale che, indubbiamente, gioca un ruolo fondamentale nel miglior funzionamento della vita condominiale, proprio in una nazione come la nostra che vanta il maggior numero, in Europa, di fabbricati condominiali.

Napoli, lì 31 maggio 2023                                                                                         Avv. Luigi Grillo

 

Luigi Grillo

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