L’onere della prova nel processo tributario
di Avv. Maurizio Villani · 18 maggio 2023
Tag: contenzioso tributario
SOMMARIO
1. Considerazioni introduttive – 2. L’onere della prova nel processo tributario – 2.1 Ante riforma tributaria: art. 2697 c.c. – 2.2 Post riforma del processo tributario: il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/92. – 3. Effetti della nuova normativa sulle presunzioni legali, semplici e giurisprudenziali. – 4. Orientamenti giurisprudenziali in tema di onere della prova ante riforma.
1. CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
L’onere della prova è un principio logico-argomentativo in base al quale chi intende dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire le prove della sua esistenza.
Tale principio è disciplinato dall’art. 2697 del Codice civile, rubricato “Onere della prova”, a norma del quale:
“Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda.”
In linea generale, la ripartizione dell’onere della prova tra le parti delineata dal codice civile risponde a principi di opportunità e razionalità, oltre che a concrete esigenze di giustizia.
In particolare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., gli elementi di una determinata fattispecie si distinguono in fatti costitutivi, estintivi, modificativi o impeditivi; pertanto, mentre la prova dei fatti costitutivi spetta all’attore (art. 2697, comma 1), la prova dei fatti impeditivi, modificativi ed estintivi spetta al convenuto (art. 2697, comma 2).
Specificamente, per “fatto costitutivo” si intende l’elemento la cui prova è necessaria poiché concorre a determinare gli effetti materiali previsti dalla relativa norma. Da tanto ne consegue che la prova di tale fatto incombe sull’attore, cioè su colui che agisce in giudizio invocando l’applicazione di quella determinata disposizione.
Invece, sono da intendersi “estintivi o modificativi” quei fatti che determinano l’estinzione o la modificazione dell’effetto giuridico richiesto dall’attore. In tal caso, l’onere della prova grava sul convenuto, ossia su colui che si oppone alla pretesa avanzata dall’attore.
In altri termini, la ripartizione dell’onere probatorio, attiene al diritto fatto valere in giudizio ed è dovuta alle posizioni ricoperte dalle parti in ambito processuale, con la conseguenza che l’onere di provare un fatto ricade su colui che invoca proprio quel fatto/diritto a sostegno della propria tesi, conformemente al noto brocardo “Onus probandi incumbit ei qui dicit” (“l’onere della prova incombe su colui che afferma qualcosa”); invece, il soggetto che contesta la rilevanza di tali fatti in giudizio ha l’onere di dimostrarne l’inefficacia o provare altri fatti che abbiano modificato o fatto venir meno il diritto vantato dall’attore.
Tanto premesso, occorre rammentare che, la materia tributaria era sprovvista di una norma specifica in tema di onere della prova e, pertanto, in virtù del costante richiamo alle norme civilistiche, trovava applicazione il succitato art. 2697 c.c.
La normativa civilistica in ambito tributario è stata, tuttavia, oggetto di diverse deviazioni, tra le quali si segnala l’indirizzo, oramai definitivamente tramontato, che faceva leva sulla cosiddetta “presunzione di legittimità dell’atto amministrativo”, la quale addossava l’onere della prova nel processo tributario “sempre e comunque sul contribuente”, così determinando una sorta di presunzione di legittimità dell’atto amministrativo, che sarebbe risultato, quindi, sino a prova contraria, fondato sia in fatto che in diritto.
Tale indirizzo è stato superato a partire da alcune sentenze della Corte di Cassazione del 1979 (tra tutte, Cass. n. 2990/79) conseguendone che, ad oggi, non è più fatto controverso che, in base al principio della “vicinanza dell’onere della prova”, anche nel rapporto tributario, valga la disposizione di cui all’articolo 2697 c.c., in base al quale, nelle vicende tributarie, l’Amministrazione Finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, così come spetta al contribuente la prova del fatto costitutivo nelle liti in materia di rimborso.
Tanto premesso, occorre però chiarire che, da ultimo, la legge di riforma del processo tributario n. 130 del 31 agosto 2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022, ha introdotto una specifica disposizione in materia, aggiungendo, di fatto, il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, di cui meglio si argomenterà nel prosieguo.
2. L’ONERE DELLA PROVA NEL PROCESSO TRIBUTARIO
2.1 Ante riforma tributaria: art. 2697 c.c.
Come anzidetto, prima della recentissima introduzione del comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, la materia tributaria era sprovvista di un norma specifica in tema di onere della prova e, pertanto, in virtù del costante richiamo alle norme civilistiche, trovava applicazione il succitato art. 2697 c.c.
In un primo momento, sul piano processuale, la presunzione di legittimità faceva gravare sempre sul contribuente l’onere di dimostrare in giudizio l’illegittimità o l’infondatezza dell’atto impositivo.
Tuttavia, tale indirizzo è stato superato mediante alcune sentenze della Cassazione. Tra le prime pronunce di legittimità, si segnala la sentenza n. 2990 del 23 maggio 1979 con la quale i giudici di legittimità hanno, per la prima volta, ritenuto che:
“(…) non può porsi tutto l’onere probatorio a carico esclusivo del destinatario del provvedimento, poiché se egli, per ragioni attinenti esclusivamente alla esecutorietà della pretesa fatta valere dalla pubblica amministrazione, assume la iniziativa del processo, la sua qualità di attore in giudizio non esclude che l’indagine del giudice verta pur sempre su un diritto di credito, i cui presupposti di fatto, secondo le regole generali, debbono essere provati, in caso di incertezza circa la loro esistenza oggettiva, dalla autorità amministrativa che coltiva la relativa pretesa, mentre incombe al destinatario del provvedimento l’onere della prova dei fatti modificativi o estintivi, secondo la disciplina dettata dall’art. 2697 c.c.”
Questa pronuncia ha rappresentato, dunque, una vera e propria svolta nel processo tributario, poiché ha permesso di valorizzare, ai fini del riparto probatorio, la posizione sostanziale assunta dalle parti nel processo, estendendo l’applicazione al processo tributario della regola generale di cui all’art. 2697 c.c.
Ed invero, da sempre la giurisprudenza e la dottrina hanno interpretato tale norma attribuendo all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa fiscale; mentre al contribuente l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della medesima pretesa.
In altri termini, traslando tale principio civilistico in ambito tributario, ne discende che l’Amministrazione finanziaria che vanta un credito nei confronti del contribuente è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, conseguendone, in termini generali che:
– spetta al Fisco l’onere di provare la maggiore capacità contributiva del soggetto verificato nonché i presupposti di fatto e di diritto sui quali la pretesa fatta valere nei suoi confronti si fonda (vale a dire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa);
– spetta al contribuente l’onere di provare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della medesima pretesa o, al più, la prova del fatto costitutivo in materia di rimborso.
Sul punto, si segnala, tra le tante, la sentenza della Corte di Cassazione, 25 ottobre 2021, n. 29856, con cui è stato chiarito che:
“è ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che, anche nel processo tributario, vale la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’articolo 2697 c.c., e che, pertanto, in applicazione della stessa, l’amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, essendosi ormai da tempo chiarito che la c.d. presunzione di legittimità degli atti amministrativi (un tempo evocata per giustificare la loro idoneità ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica altrui) non opera nei confronti del giudice ordinario (v. ex multis Cass. Civ., Sez. 5, n. 1946 del 10/02/2012; Sez. 5, n. 13665 del 05/11/2001; Sez. 1, n. 2990 dei 23/05/1979, Rv. 399324).
Pertanto, è chiaro che, per un lungo periodo, nel processo tributario ha trovato applicazione la disciplina civilistica ex art. 2697 c.c., soprattutto perché nel codice del processo tributario non vi era alcuna disposizione in tema di onere probatorio.
2.2 Post riforma del processo tributario: il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/92.
Solo con l’entrata in vigore della L. n. 130/2022, di riforma della giustizia e del processo tributario, il legislatore è intervenuto in tema di riparto dell’onere probatorio in materia tributaria aggiungendo il comma 5-bis all’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992.
Specificamente, l’art. 6 della L. n. 130/2022, entrata in vigore il 16 settembre 2022 (e applicabile anche ai processi pendenti), ha modificato l’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 aggiungendo il comma 5-bis, in materia di onere probatorio.
La novella legislativa non solo ristabilisce le regole tradizionali in tema di onere probatorio, ma istituisce, altresì, un maggiore rigore sia nell’individuazione delle prove da parte dell’Amministrazione finanziaria, che nella valutazione delle stesse da parte del giudice tributario.
Specificamente, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, (sganciandosi per la prima volta dalla necessarietà di fornire la prova del diritto da far valere in giudizio di cui all’art. 2697 cc), tanto dispone:
“L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.
Orbene, analizzando il testo normativo, la disposizione sembra potersi “scomporre” in due parti:
– il primo periodo, relativo all’onere della prova sugli atti impositivi, dispone che l’Amministrazione è tenuta a provare i presupposti di fatto e di diritto della propria pretesa erariale. In altre parole, il Fisco deve fornire la prova dell’esistenza dell’an e del quantum dei fatti costitutivi dell’obbligazione tributaria, vale a dire delle violazioni contestate con l’atto impugnato.
È pacifico che la circostanza per cui l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria grava sull’ente impositore dipende dalla posizione che quest’ultimo ricopre nel processo, ossia dalla sua posizione di creditore nonché di attore sostanziale.
Spetta, invece, al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati.
Ciò perché, nelle controversie relative alle istanze di rimborso, la posizione di creditore nonché di attore formale e sostanziale è ricoperta dal contribuente e, pertanto, spetta a costui dimostrare il fatto costitutivo del suo diritto alla ripetizione, cioè l’eccedenza di pagamento
Tra le più recenti pronunce che hanno preso atto della novella legislativa in commento vi è naturalmente la giurisprudenza di merito, tra cui si segnala la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa n. 3856 del 23 novembre 2022, con la quale i giudici hanno così statuito:
“La lettura esegetica dell’incipit del novellato comma 5-bis, articolo 7, del Dlgs 546/1992 non lascia spazio a diverse interpretazioni: “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato“. La prima considerazione indotta dalla lettura di questa alinea del comma citato è che la norma si risolve, inequivocabilmente, nell’introduzione nel processo tributario di una nuova regola autonoma sorta per dirimere le questioni in ordine al riparto dell’onere della prova, superando così la portata dell’articolo 2697 del codice civile e con esso la trasposizione, talora impropria, nel processo tributario di dinamiche essenzialmente privatistiche. In base alla nuova regola, dunque, è inequivocabile che sia l’Amministrazione Finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d’impresa”;
– il secondo periodo, invece, è relativo al potere di annullamento del giudice tributario e ai presupposti in tema di valutazione delle prove. Più nel dettaglio, il secondo periodo della novella legislativa individua i criteri di valutazione rimessi al giudice tributario nell’adozione della propria decisione nonché i presupposti per l’annullamento dell’atto tributario, prevedendo, specificamente, che il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Peraltro, ai sensi del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992, in caso di mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’Amministrazione finanziaria, il giudice non può acquisire d’ufficio le prove. In altri termini, il giudice non può supplire alla mancanza di fondatezza o ad una prova insufficiente o contraddittoria, ma, in tale circostanza, ha il dovere di annullare l’atto impositivo.
La nuova disposizione normativa richiede, quindi, una capacità dimostrativa della pretesa, con la conseguente limitazione dei poteri discrezionali del giudice nella sua valutazione.
Infatti, il nuovo comma 5-bis cit. chiarisce che il dovere del giudice di esprimere il suo “prudente apprezzamento”, ex art. 116 c.p.c., deve essere basato sulla verifica della sussistenza di una prova specifica, puntuale e circostanziata dei fatti contestati. Laddove tale prova manchi, allora il giudice dovrà annullare l’atto impositivo.
Più nello specifico, il giudice ha l’obbligo di dichiarare la nullità dell’atto impugnato qualora la prova della sua fondatezza sia:
– mancante;
– contraddittoria;
– insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
Ne consegue che, la novità legislativa di cui al comma 5-bis cit., induce il giudice ad apprezzare con particolare rigore tali indizi, disattendendo la pretesa quando, anche alla luce delle difese del contribuente, essi appaiano inidonei a integrare, seppur presuntivamente, le “ragioni oggettive” della contestazione.
Sul tema, a conferma di quanto appena detto, si è espressa la Corte di Giustizia Tributaria di Lecce con la recentissima sentenza n. 309/2023 depositata il 1° marzo 2023, così precisando:
“Nella seconda parte del secondo periodo, collocato in aggiunta (“e”) a quello precedente, si individuano i poteri della Corte di giustizia tributaria dicendo che essa “annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”. In tal modo viene a emergere la prova della fondatezza dell’atto impositivo quale vizio dell’atto impugnato, la cui mancanza, contraddittorietà o insufficienza comporta per la Corte di giustizia tributaria l’annullamento dell’atto impugnato.
Nel connotare il deficit probatorio che conduce all’annullamento dell’atto la norma si dilunga nello specificare che la “mancanza”, la “contraddittorietà” o l’”insufficienza” debbono essere correlate alla dimostrazione, in modo circostanziato e puntuale, delle ragioni su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni, impegnando così l’organo giudicante alla valutazione del risultato istruttoriamente acquisito dalla prova incombente sull’Amministrazione, “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale””.
Tirando le somme di quanto fin qui esposto, non può non rilevarsi che le novità in materia di onere probatorio introdotte con la L. n. 130/2022 hanno permesso di riequilibrare il rapporto tra fisco e contribuente.
L’obiettivo dell’intervento normativo sembra convergere, infatti, verso un unico concetto di onere della prova, in base al quale chi “contesta deve provarne la fondatezza”; pertanto:
– in caso di accertamento, l’Amministrazione dovrà provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato; così come, del pari, spetterà al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso (quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati);
– al contempo, il giudice dovrà annullare l’atto impugnato, se la prova della sua fondatezza è mancante, contraddittoria o insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni.
3. EFFETTI DELLA NUOVA NORMATIVA SULLE PRESUNZIONI LEGALI, SEMPLICI E GIURISPRUDENZIALI.
Volendo individuare la portata applicativa e gli effetti del nuovo art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992, sembra emergere che la nuova normativa non abbia prodotto effetti rilevanti in tema di presunzioni legali (che siano esse assolute o relative) che, dunque, continuano a mantenere la loro piena applicabilità e per le quali, pertanto, è valida l’inversione dell’onere della prova.
La questione, di recente è stata affrontata (seppur marginalmente) dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 31878 del 27 ottobre 2022, con la quale i giudici di legittimità, hanno così chiarito:
“È appena il caso di sottolineare che il comma 5 bis dell’art. 7 d.lgs. n.546/1992, introdotto con l’articolo 6 della legge n. 130/2022, ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio”.
In altri termini, parrebbe che, a parere dei giudici di legittimità, in tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5 bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, non stabilisce un onere probatorio più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale (cfr. in senso conforme – in tema di operazioni fraudolente – Cass. ord. n. 31880 del 27/10/2022)
Negli stessi termini, la quaestio iuris, è stata affrontata dalla Corte di Cassazione, anche in tema di redditometro, con l’ordinanza n. 37985 del 28/12/2022, con la quale i giudici di legittimità, hanno così chiarito:
<< Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha chiarito, altresì, i confini della prova contraria che il contribuente può offrire, in ordine alla presenza di redditi non imponibili, per opporsi alla ricostruzione presuntiva del reddito operata dall’Amministrazione finanziaria, precisando che non è sufficiente dimostrare la mera disponibilità di ulteriori redditi o il semplice transito della disponibilità economica, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, si ritiene che il contribuente ‹‹sia onerato della prova in merito a circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere››; è la norma stessa infatti a chiedere qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte), in quanto, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, chiede tuttavia espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere), in tal senso dovendosi leggere lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) dell’entità di tali eventuali ulteriori redditi e della durata del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi. Nè la prova documentale richiesta dalla norma in esame risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame (Cass. 14/06/2022, n. 19082; Cass. 20/04/2022, n. 12600; Cass. 24/05/2018, n. 12889; Cass. 16/05/2017, n. 12207; Cass. 26/01/2016, n. 1332; Cass. 18/04/2014, n. 8995).
È appena il caso di sottolineare che non incide su tale impianto il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto con l’art. 6 della l. n. 130 del 2022, che ha ribadito, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali, come invece avviene nel caso di specie, non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio (Cass. 27/10/2022, n. 31878, che ha anche evidenziato che la previsione non pone un onere probatorio diverso rispetto ai principi già vigenti). >>
Ciò posto, si ritiene che la nuova normativa lasci invariata l’applicabilità delle presunzioni legali che, dunque, continuano a mantenere la loro applicabilità e per le quali, pertanto, è valida l’inversione dell’onere della prova.
Altresì, la nuova normativa lascia invariata l’applicabilità delle presunzioni semplici per le quali, una volta assolto da parte dell’Amministrazione l’onere probatorio mediante l’uso di indizi gravi, precisi e concordanti, spetterà, in seguito, al contribuente fornire la prova contraria.
Di contro, la novella in esame sembra modificare la portata applicativa delle presunzioni giurisprudenziali (largamente utilizzate in ambito tributario). Quest’ultime consistono in una sorta di manipolazione giurisprudenziale della distribuzione degli oneri probatori. In sostanza, utilizzando questo modello, il giudice inverte la regola generale in materia di distribuzione dell’onere della prova, cosicché il contribuente, pur non essendo in presenza di una presunzione legale relativa (2728 del Codice civile), deve fornire prova idonea a vincere la presunzione.
In sostanza, se è vero che le presunzioni giurisprudenziali si differenziano da quelle legali sotto il profilo della copertura normativa (nel senso che non si è in presenza di una presunzione stabilita dalla legge che attribuisce l’onere probatorio in capo al contribuente), esse però, godendo dell’avallo consolidato e univoco della giurisprudenza di legittimità che le utilizza ormai come massime di esperienza consolidate (differenziandosi così anche dalle presunzioni semplici, le quali devono essere applicate con riferimento al caso concreto). Occorre, ad esempio, considerare che, specie nel diritto tributario, le presunzioni giurisprudenziali appaiono prive di giustificazione; si cita a tal proposito la prova che il socio di una Srl a ristretta base partecipativa non ha “intascato” l’utile in nero della società, che, di fatto, costituisce una probatio diabolica. Sono solo i fatti positivi, infatti, che possono formare oggetto di prova.
Ne consegue che la novella normativa in esame si ritiene essere stata necessaria per far fronte, proprio, all’incalzare delle presunzioni giurisprudenziali che, del tutto prive di giustificazione, non solo attribuiscono un onere di prova nei confronti di un soggetto (il contribuente) che non ne dove risultare onerato ma, inoltre, attribuiscono un onere di prova generalmente negativo in capo a quest’ultimo.
4. ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI IN TEMA DI ONERE DELLA PROVA ANTE RIFORMA.
Nonostante le modifiche introdotte ad opera della citata L. 130/2022, per completezza espositiva si analizzano di seguito le più rilevanti sentenze che hanno caratterizzato negli anni il panorama tributario.
Pertanto, seppur in tema di costi indeducibili, società a ristretta base azionaria e società di comodo non vi sia recente giurisprudenza di legittimità in tema di portata applicativa della nuova normativa ex co. 5-bis cit., si rende necessario ribadire che:
– in tema di deducibilità dei costi, la giurisprudenza ha più volte inteso chiarire che nel processo tributario la prova del diritto alla deduzione di costi è a carico del contribuente e ciò sia con riferimento al criterio che chi afferma un fatto costitutivo di un diritto lo deve provare e sia con riferimento al criterio di vicinanza della prova.
Sul punto, tra le tante, si segnala la Corte di Cassazione, ordinanza 25 novembre 2020, n. 26802 con cui è stato chiarito che:
<< con riferimento alla violazione delle norme di cui all’articolo 2697 c.c., all’articolo 116 c.p.c., e agli articoli 1199 e 2702 c.c., deve rilevarsi che “nel processo tributario, ove il contribuente assolva l’onere, a suo carico, di provare il fatto costitutivo del diritto alla deduzione dei costi o alla detrazione dell’IVA mediante la produzione delle fatture, l’Amministrazione finanziaria ne può dimostrarne l’inattendibilità anche mediante presunzioni, sicché il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno delle operazioni fatturate, ivi compresi i fatti secondari indicati”(Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2935 del 13/02/2015);
come rilevato nella motivazione della citata sentenza, “la giurisprudenza di questa Corte è costante nel senso che la prova del diritto alla deduzione di costi è a carico del contribuente e ciò sia con riferimento al criterio che chi afferma un fatto costitutivo di un diritto lo deve provare e sia con riferimento al criterio di vicinanza della prova (Cass. sez. trib. n. 13943 del 2011; Cass. sez. trib. n. 4554 del 2010). E’ peraltro possibile che il contribuente sia in grado di assolvere l’onere dimostrativo di che trattasi mediante la produzione di fatture, ma per contro è altrettanto possibile che l’Amministrazione possa fornire prova dell’inattendibilità delle stesse anche mediante praesumptio hominis. E, in questa direzione, il giudice di merito deve prendere in considerazione il complessivo quadro probatorio al fine di verificare l’esistenza o meno di operazioni fatturate e dedotte (Cass. sez. trib. n. 9958 del 2008; Cass. sez. trib. n. 21953 del 2007)”.
In senso conforme, occorre segnalare anche la Corte di Cassazione, ordinanza 15 novembre 2022, n. 33568, con cui è stato chiarito che il principio di inerenza dei costi deducibili (esprimendo una correlazione in concreto tra costi ed attività d’impresa) si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da considerazioni di natura quantitativa; l’antieconomicità di un costo – intesa come sproporzione tra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa – può, tuttavia, fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza, e in questo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione è tenuta a dimostrare, anche con il ricorso ad indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, evidenziando, in particolare, l’inattendibilità della condotta del contribuente. In particolare è stato chiarito che:
<< La possibile rilevanza del dato quantitativo nella valutazione di inerenza di un costo – intesa come congruità di quest’ultimo rispetto ad ulteriori dati contabili dell’impresa, donde possa desumersi la sua correlazione all’attività dell’impresa stessa – si intreccia con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza.
Tale ultimo, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, incombe sul contribuente; si rendono tuttavia necessarie, proprio con riguardo al profilo che qui interessa, alcune precisazioni.
5.2. In particolare, l’onere probatorio che grava sul contribuente attiene all’esistenza di circostanze fattuali che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa; ma laddove l’Amministrazione adduca ulteriori elementi tali da far ritenere – per se’ soli o in combinazione con quelli portati dal contribuente – che il costo non sia, in realtà, correlato all’attività d’impresa, essa ultima è tenuta a fornire la prova della propria contestazione (cfr., fra le altre, Cass. n. 18904/2018, diffusamente in motivazione).
È in tale prospettiva che assume rilievo la possibile valutazione circa la congruità od antieconomicità della spesa, intesa come proporzionalità fra importi corrisposti ed utilità conseguite.
5.3. In tale ultimo caso, l’Amministrazione non può, ovviamente, spingersi a sindacare le scelte imprenditoriali; l’antieconomicità della spesa richiede, invece, la dimostrazione dell’inattendibilità della condotta, che va considerata in chiave diacronica, tenuto conto dei diversi indici che presiedono la stima della redditività dell’impresa (v. Cass. n. 21869/2016; Cass. n. 13468/2015), a fronte della quale spetta poi al contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate (Cass. n. 25257/2017).
Una tale dimostrazione, peraltro, ben può essere fornita anche con ricorso ad elementi indiziari, purché’ provvisti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
5.4. Si può, pertanto, affermare il seguente principio di diritto: “Il principio di inerenza dei costi deducibili, esprimendo una correlazione in concreto tra costi e attività d’impresa, si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde da valutazioni di natura qualitativa. Tuttavia, l’antieconomicità di un costo – intesa, in particolare, come sproporzione fra la spesa e l’utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell’impresa – può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza. In tale ultimo caso, ove il contribuente indichi i fatti che consentano di ricondurre il costo all’attività d’impresa, l’Amministrazione è tenuta a dimostrare, se del caso anche con ricorso ad indizi, gli ulteriori elementi addotti in senso contrario, in particolare evidenziando l’inattendibilità della condotta del contribuente”;
– in tema di società di capitali a ristretta base azionaria, si presume che i maggiori utili “in nero” conseguiti dalla società a ristretta base azionaria si debbano intendere “percepiti” dai soci.
Infatti, la Cassazione ha elaborato un orientamento che associa la rideterminazione del reddito societario accertato dall’Agenzia, con l’attribuzione dello stesso pro quota ai soci, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, invece, accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili.
A tal proposito, si cita la recente ordinanza della Corte di Cassazione, 28 ottobre 2022, n. 31882, con cui è stato chiarito che:
<<In materia questa Corte ha a più riprese affermato che la circostanza che si tratti di società a ristretta base partecipata da solo due soci costituisce “presupposto sufficiente al fine di fondare la presunzione di legge” e che “in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, è ammessa la presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, con la conseguenza che, una volta ritenuta operante detta presunzione, spetta poi al contribuente fornire la prova contraria” (Cfr. Cass., V, n. 13550/2020). Altresì, in disparte l’accertamento in capo alla società, il socio può sempre dimostrare che il maggior utile societario è stato accantonato o, comunque, non a lui distribuito. Ed infatti, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (cfr. Cass. V n. 5076/2011; n. 17928/2012; n. 27778/2017; n. 30069/2018; 27049/2019, nonché’ Cass. VI – 5 n. 24820/2021).
Da ultimo, la Cassazione si è pronunciata anche con l’ordinanza, 1° marzo 2023, n. 6202, chiarendo che:
<< in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova contraria del fatto che i maggiori redditi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (cfr. Cass., 4 settembre 2020, n. 18383; Cass., 11 settembre 2020, n. 18854; Cass., 3 giugno 2021, n. 15393);
-) la ristrettezza della compagine societaria implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, che fa ritenere plausibile in tutti la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza della esistenza di utili extra bilancio, alla cui distribuzione è ragionevole ritenere che tutti i soci abbiano partecipato in misura conforme al loro apporto sociale, fatta salva l’anzidetta possibilità riconosciuta al contribuente di fornire la prova contraria (cfr. Cass., 29 dicembre 2017, n. 28542; Cass., 19 gennaio 2021, n. 752); -) l’accertamento a carico della società in ordine ai ricavi non contabilizzati e’ il presupposto necessario per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai dividendi giacche’, in mancanza, non sussiste la prova dello stesso fatto costitutivo della pretesa tributaria (cfr. Cass., 19 dicembre 2019, n. 33976; Cass., 22 marzo 2021, n. 7949; Cass., 24 maggio 2021, n. 14096), con l’effetto che deve essere dichiarato illegittimo l’avviso di accertamento che ipotizzi la percezione di maggiori utili societari in capo al socio, quando non sia stata preventivamente accertata la posizione della società di capitali, evidenziando in capo alla stessa un maggior reddito non dichiarato (cfr. Cass., 19 gennaio 2021, n. 752)>>;
– in tema di società di comodo, si segnala la recentissima Corte di Cassazione, ordinanza 16 maggio 2023, n. 13336, con cui i giudici di legittimità hanno chiarito che la società in liquidazione per anni si presume di comodo se il contribuente non prova l’esistenza di situazioni oggettive di carattere straordinario, indipendenti dalla sua volontà, da valutarsi in relazione alle effettive condizioni del mercato, che non hanno permesso di conseguire i ricavi minimi o il reddito determinato secondo i parametri normativi.
Specificamente, i giudici di legittimità hanno chiarito che:
<< 2.4. In tale contesto, il contribuente può vincere la presunzione dimostrando all’Amministrazione – attraverso l’interpello finalizzato alla disapplicazione delle disposizioni antielusive, ovvero in giudizio, nel caso di contrasto – le oggettive situazioni che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito (Cass. 23/05/2022, n. 16472, cit.).
L’onere della prova contraria deve essere inteso “non in termini assoluti quanto piuttosto in termini economici, aventi riguardo alle effettive condizioni di mercato” (Cass. 20/06/2018 n. 16204; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 5/04/12/2019, n. 31626; Cass. 1/02/2019, n. 3063; Cass. 28/05/2020, n. 10158). E’ stato peraltro escluso che, attraverso il meccanismo della presunzione relativa e dell’onere della prova contraria gravante sul contribuente, si pervenga ad un mero sindacato di merito del giudice sulle scelte imprenditoriali, rilevando che “In tema di società di comodo, non sussistono le oggettive situazioni di carattere straordinario, che rendono impossibile il superamento del test di operatività, ex L. n. 724 del 1994, articolo 30, comma 4-bis, nella versione all’epoca vigente, nell’ipotesi di totale assenza di pianificazione aziendale da parte degli organi gestori della società o di completa “inettitudine produttiva”, gravando sull’imprenditore, anche collettivo, – ai sensi dell’articolo 2086, comma 2 c.c., come modificato dall’articolo 375 c.c.i., in coerenza con la Cost., articolo 41 – l’obbligo di predisporre i mezzi di produzione nella prospettiva del raggiungimento del lucro obiettivo e della continuità aziendale. Sicche’ in tal caso, il sindacato del giudice non coinvolge le scelte di merito dell’imprenditore, attenendo alla verifica del corretto adempimento degli obblighi degli amministratori e dei sindaci, con riduzione dell’operatività della “business judgement rule”, sempre valutabile, sotto il profilo tributario, per condotte platealmente antieconomiche.” (Cass. 23/11/2021, n. 36365).
Inoltre, con riferimento alla presunzione legale relativa di non operatività, l’onere probatorio può essere assolto non solo dimostrando che, nel caso concreto, l’esito quantitativo del test di operatività è erroneo o non ha la valenza sintomatica che gli ha attribuito il legislatore, giacche’ il livello inferiore dei ricavi è dipeso invece da situazioni oggettive che ne hanno impedito una maggior realizzazione; ma anche dando direttamente la prova proprio di quella circostanza che, nella sostanza, dal livello dei ricavi si dovrebbe presumere inesistente, ovvero dimostrando la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale, e dunque l’operatività reale della società (cfr. Cass. 24/02/2021, n. 4946, cit., in motivazione; Cass. 28/09/2021, n. 26219, in motivazione).
2.5. In forza di queste considerazioni si è già affermato che la prova contraria da parte del contribuente deve risolversi nell’offerta di elementi di fatto consistenti in “situazioni oggettive di carattere straordinario”, “indipendenti dalla volontà del contribuente”, che rendano “impossibile conseguire il reddito presunto avuto riguardo alle effettive condizioni del mercato” (Cass. 3/03/2023, n. 6459; Cass. 23/11/2021, n. 36365; Cass. 12/02/2019, n. 4019; Cass. 20/06/2018 n. 16204) e che, pertanto, facciano desumere “l’erroneità dell’esito quantitativo del test di operatività, ovvero la sussistenza di un’attività imprenditoriale effettiva, caratterizzata dalla prospettiva del lucro obiettivo e della continuità aziendale e, dunque, l’operatività reale della società” (Cass. 23/05/2022, n. 16472).>>
Lecce, 18 maggio 2023
Avv. Maurizio Villani
Avv. Federica Attanasi
AVV. MAURIZIO VILLANI
Avvocato Tributarista in Lecce
Patrocinante in Cassazione
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